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La Ventiquattresima Ora di Corrado Ori Tanzi

Intervista di Riccardo Santangelo

Quante cose possiamo fare in 24 ore? Quante persone possiamo incontrare nello stesso lasso di tempo? Quanti dubbi, pensieri, azioni, sbagli e scelte giuste? Sono domande che non avranno mai una risposta. Sta di certo però che le 24 ore scorreranno sempre inesorabilmente senza poter avere il modo di stopparle…

Così partendo dallo scandire temporale delle ore del giorno, Corrado Ori Tanzi (milanese, classe 1965, giornalista professionista, redattore di The Follow Up News, lettore vorace e appassionato di musica) ha scritto il suo nuovo libro, edito da Porto Seguro Editore. Diviso in 24 capitoli, uno per ogni ora del giorno, con 24 protagonisti, vengono dipinte le fragilità ma anche le grandezze del genere umano. A legare i capitoli è sempre un personaggio diverso, che viene presentato nel capitolo precedente e diventa protagonista di quello successivo.

Come è nata l’idea di scrivere un libro diviso nelle 24 ore del giorno?

Perché già ci aveva pensato James Joyce a scrivere la storia di un giorno unico vissuto da un gruppo di dublinesi. Fuori dalla battuta, mi piaceva l’idea di prendere le ventiquattro frazioni del giorno e in ogni singola ora creare la vicenda compiuta di un protagonista e permettere a uno dei personaggi di contorno di diventare il centro del capitolo successivo, anch’esso della durata di soli sessanta minuti. Lo definisco un romanzo dalle porte scorrevoli, mi sembra un’immagine adatta.

Ventiquattro personaggi che si alternano come in una staffetta immaginaria, passandosi il testimone di protagonista della narrazione, puoi dirci a quale di questi (anche più d’uno) ti senti legato?

Mentre scrivevo mi sono emozionato nel dare corpo e spirito a Mafalda, il personaggio a fumetti di Quino che amo per la sua spavalda ingenuità. Mi piace il suo pensarsi donna matura dentro a un corpo di bambina, le sue talvolta agghiaccianti verità sul pianeta intero e sulla vita degli adulti. Darle la possibilità insieme ad Alack Sinner, altro personaggio dei fumetti che amo particolarmente, di uscire dalle tavole di un albo e di tastare la propria consistenza nel mondo reale, mi ha coinvolto molto emotivamente perché ho dovuto rispettare il suo essere bambina scaltra e intelligente, ma pur sempre bambina. Ho scritto quel capitolo volendole un gran bene.

Oltre ai personaggi che hai citato, altri che si incontrano in queste 24 ore mi hanno colpito particolarmente. Come lo smemorato che si ritrova a saper suonare il pianoforte come un grande concertista, il serial killer un po’ sfortunato, l’Occhio protagonista dell’Ora Tredicesima, Patroclo Varazze, l’industriale della bicicletta scurrile e ossessionato dal lato B, e le due rockstar (protagoniste di due differenti capitoli) che si ritrovano in una situazione dove passato, nostalgia e senso di fuga li fanno sentire più umani, fuori dal mito e all’interno di una esistenza normale scandita dalle ore del giorno…

Sì, il libro è un caravanserraglio di protagonisti a cui, scomodando Paolo Conte, ho cercato di far fare un po’ di letteratura con la miseria della loro bravura. Ognuno in qualche modo fugge come fallito con potenzialità o si trova imbrigliato da depensanti di successo. E tra questi, a un certo punto si fa largo l’Occhio, come hai citato tu. Non una persona, né un fantasma, né altrimenti un deus ex machina dai contorni fantastici o fantascientifici. Ma semplicemente l’atomo di noi stessi che conosce la nostra verità e a cui non possiamo mentire. Una presenza che si fa viva indipendentemente dal fatto che la si inviti o meno e che ha punti di contatto con quell’altra invitata che non chiede mai il permesso.

Hai trasferito qualcosa del tuo vissuto nel libro?

Chiunque scriva un romanzo o un racconto fa uscire qualcosa del proprio vissuto. Anche se non pensa di attingere a ciò che la vita gli ha riservato, un autore non può evitare una trasposizione, anche solo immaginifica, del sé. Può anche trattarsi di un semplice soffio del passato personale, ma si tratta di comunque di un soffio che riuscirà sempre a evitare il controllo della mente occupata a dare forma e corpo a una qualsivoglia storia.

Se il tempo scelto del racconto è un giorno, come sono stati scelti i luoghi in cui ambientare i diversi capitoli?

Ho cercato di dare alla narrazione una spazialità universale. Si passa dall’Italia al Giappone, dalla Francia alla Germania e agli Stati Uniti anche perché ho voluto evitare di dare una collocazione alle storie eccessivamente legata a un unico luogo in quanto non è tanto il posto geografico che conta nell’economia dell’architettura del romanzo.

In alcuni capitoli si percepisce la tua passione per la musica e la letteratura. Alcuni personaggi (reali e non) sono presi da questi due mondi. Ci racconti di più su queste scelte, e chi sono questi personaggi?

Per i personaggi che vivono sotto mentite spoglie preferisco che sia il lettore a individuarne la loro reale identità. Si tratta certo di uomini e donne che hanno colpito la mia attenzione con le loro opere, nel bene e nel male.

Leggendo il libro si ha la percezione di un lavoro lungo per la scelta dello stile narrativo. Ma quali sono gli scrittori che più ti hanno influenzato e in cui trovi più spunti nella scrittura?

Io sono una persona per la quale la lettura vale come l’acqua, il pane, il respiro e il sonno. E alla mia età, come lettore, ne ho incontrato tanti di scrittori e, di questi, tanti hanno lasciato il loro segno. Tu mi chiedi in particolare della scrittura. Ci provo. Amo la scrittura essenziale di Georges Simenon, autore capace di scrivere la frase perfetta. Mi colpisce ancor oggi l’architettura narrativa di Stephen King e di come, attraverso il suo stile, riesca sempre a darne forma letteraria finita di profilo molto alto. Che aspettano a conferirgli il Nobel? Sono incantato dalla scrittura non lineare di Bob Dylan, la sua esposizione attraverso quadri sovrastanti o intersecanti fa evaporare la tradizionale concezione che abbiamo dell’io narrante e crea una forte dimensione temporale circolare. E sono affascinato dai romanzi di Simone de Beauvoir. Amo tanto il suo pensiero quanto il suo percorso umano di donna pensante e senziente e penso che la sua narrativa, così a tratti algida e volutamente cronachistica, riveli a meraviglia il ritratto di una persona, sì forte e risoluta in un mondo pieno di maschi alfa, ma altrettanto vulnerabile.  

Anche nei tuoi precedenti romanzi hai cercato di esplorare una tua personalissima visione delle vita, della morte e di quello che dovrebbe esserci dopo. Ce la puoi raccontare?

Io sono credente. Credo in un aldilà come lo ha fatto pervenire il Cristo. Credo nella beatitudine eterna. Ho qualche incertezza su come immaginare quella dei corpi, ma sento per certo che l’anima intraprenderà un nuovo cammino e che la storia di ognuno di noi non si fermerà con la fine della vita materica. Se niente muore e tutto si trasforma non vedo perché l’essere umano debba essere l’unico aggrappato esclusivamente a un’esistenza biologica. No, anche la morte muore e noi, a secondo di come avremo utilizzato il nostro libero arbitrio, continueremo a essere.

Non tieni nascosta la tua passione per Bob Dylan, raccontaci come e perché è nata?

Era il 1978, avevo tredici anni e stavo trascorrendo le vacanze estive con la mia famiglia in un campeggio in Valle d’Aosta. Alla radio trasmisero un brano a me sconosciuto. Fui colpito dal suono lancinante del violino, dalla melodia fluttuante e quindi da una voce pungente e al contempo delicata che non avevo mai ascoltato prima. Fui rapito. Salvo qualche parola non capii bene la lirica, ma non mi importava, fluttuavo tra le note di quella canzone che mi entrava come una magia. Era Hurricane. Da quel momento mi proposi di conoscere tutto il possibile di quell’artista. E incominciò il mio viaggio in Dylanland.

Scorrendo la tua biografia ho notato che alcune volte usi uno pseudonimo per firmare quello che scrivi. Dietro a esso c’è una storia particolare?

Un nomignolo che mi affibbiò Fabrizio De André e che nella mia carriera professionale ho utilizzato come pseudonimo quando ho dovuto apporre la firma ad articoli che non avrei voluto scrivere o che non mi hanno convinto per come mi erano usciti. A metà degli anni Ottanta partecipai, insieme ad alcuni compagni di classe del liceo, a una festa in cui era stata invitata un po’ di gente della musica e dello spettacolo. Tra cui Faber, che arrivò con Dori Ghezzi. Io a quel tempo portavo una folta barba che, chissà il motivo, aveva un forte colore rosso irlandese. Il nostro gruppo praticamente fece circolo attorno a De André che, a essere sinceri, non fece nulla per liberarsi di noi. Legammo subito e a un certo punto mi chiese: «Tu con quel barbone assomigli a Domizio Enobarbo, sai chi è?» Non lo sapevo e me lo spiegò lui: il padre di Nerone. E mi fece una breve lezione. Presto Domizio Enobarbo diventò il mio alter ego.

Quali saranno i progetti futuri?

Come autore vivo il classico periodo in cui vengono mille idee che si suicidano dopo trenta secondi. Ma forse, una in particolare però la trasformerò in un nuovo romanzo. E continuerò i miei studi dylaniani alla ricerca di penetrare, come ha scritto David Leibowitz, uno dei grandi misteri dell’universo.

Riccardo Santangelo

1 Commento
  1. […] che ha scelto di far uscire il libro prima in Italia che negli Stati Uniti, ha voluto che il museo fosse il primo ad ospitare la […]

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