L’insegnamento? Non ho mai smesso di crederci
Intervista a Francesco Maria Toscano
Per i giovani la dimensione emotivo-relazionale è diventata sempre più preponderante rispetto a quella cognitiva, si riesce a trasmettere in maniera efficace solo ciò che è passione personale, ciò che è parte del vissuto. Ma in realtà anche far notare differenze o lontananze dal proprio sentire è attraente per i ragazzi…
C’è chi dice no alla progressiva deriva scolastica pubblica dentro cui il nostro Paese affonda da almeno trent’anni. A lottare a mani nude contro la costante incuria della politica ci sono insegnanti che ancora credono nel valore civile della propria fatica. E nella scuola quale spazio ancora dello spirito e non solo di banchi e sedie occupati da un numero prefissato di giovani sederi.
Partigiani resistenti all’impoverimento delle menti che, per non far mancare la propria voce, magari aprono anche delle vie in rete che si rivelano autentiche autostrade per gli studenti con lezioni d’approfondimento della loro materia.
Tra questi ci par di poter annoverare Francesco Maria Toscano, romano, classe 1970, da oltre vent’anni insegnante di materie letterarie al liceo Croce – Aleramo della capitale.
La sua esperienza d’insegnante ha superato i vent’anni. Ma insegnare è un mestiere, una professione o qualcosa d’altro ancora?
Troppo forte parlare di vocazione? Qualche docente l’ha ricevuta dai genitori, dai propri docenti, da altri segnali che la vita lascia. E questo è il primo amore, che poi diventa un’arte molto simile a quella del cesellatore, che scopre meraviglie in blocchi grezzi di materiale che a prima vista sembra non avere valore. Con fatica, pazienza e speranza riesce a vedere piccoli capolavori.
Com’è cambiato il suo lavoro durante tutto questo tempo?
È diventato più complicato a causa della burocrazia e della conflittualità crescente fra docenti, famiglie e ragazzi. Come nel resto della società, anche a scuola si è perso il confine valoriale comune e troppo spesso ciascuno esige prestazioni che non gli spettano: i ragazzi esigono la sufficienza, i genitori esigono la promozione, i docenti esigono l’interesse.
Da molte testimonianze dei suoi colleghi sembra certificato che a ogni cambio di generazione lo studente offra all’insegnante una soglia d’attenzione sempre minore. Come riesce, se ci riesce, a comunicare a un giovane l’importanza e la bellezza di una materia come la sua?
Ho capito che la dimensione emotivo-relazionale è diventata sempre più preponderante rispetto a quella cognitiva, che era praticamente l’unica ai miei tempi. Si riesce a trasmettere in maniera efficace solo ciò che è passione personale, ciò che è parte del vissuto. Ad esempio, è fondamentale a inizio anno condividere gli obiettivi non solo in termini di conoscenze e competenze, ma rendere partecipi i ragazzi delle bellezze che scopriranno nei programmi scolastici dei mesi successivi, che sono quelle che il docente ha scoperto nei suoi anni di vita.
Concorda o contesta la scuola di pensiero secondo cui la modernità impone a un docente di avere, e utilizzare, una capacità psicologica per lo meno pari alla sua competenza nella materia?
La mia formazione universitaria non prevedeva alcun esame di psicologia e forse qualche nozione di base serviva; il tempo, la prassi quotidiana e gli errori hanno supplito a tale mancanza. Oggi forse siamo nell’eccesso opposto. Credo che l’avere a cuore i propri ragazzi e la loro crescita sia uno ‘strumento psicologico’ più efficace di tanti libri o conferenze.
Cosa deve avere un romanzo oggi per attirare un giovane e comunicargli il fascino della lettura?
Proprio perché la dimensione emotivo-relazionale è dominante, il libro diventa attraente se riguarda esperienze vissute. Almeno per iniziare, consiglio sempre romanzi legati a storie di ragazzi arrivati da posti lontani, con orizzonti esistenziali diversi da quelli occidentali, storie di sportivi che hanno lottato “con” il successo, storie di politici che si sono scontrati con realtà sociali pericolose, storie di ‘rivoluzionari’ di tutte le epoche e le regioni del mondo. Una volta che la barriera mentale contro l’oggetto libro è superata, si può passare alla letteratura di sempre.
Mi dia una percentuale: quanti dei suoi studenti alla fine lei riesce a incuriosire al punto di far loro capire che si può leggere anche per il solo piacere di farlo?
Trenta per cento, ma dipende molto dagli anni e dalla relazione che riesco a instaurare con ciascuno. Se il dialogo è vivo, basta un accenno a lezione e i ragazzi vanno nella biblioteca della scuola a cercare il romanzo. Una cosa non riesco proprio a fare è imporre i libri da leggere, come si fa normalmente nei primi anni di liceo. Mi sembra una forzatura troppo pesante. Certo, il rischio è che l’ultimo libro letto da un diciottenne sia Pinocchio.
Quale l’autore o il movimento letterario più ostico per uno studente millennial?
Quello che non piace al docente.
E quale quello che riesce a parlargli con più facilità?
Quello che piace a me, che sono quasi tutti gli autori e i movimenti. In ogni poesia o romanzo c’è qualcosa che si può far percepire come vicino al ragazzo: qualche autore si presta di più, cito Dante, Petrarca, Leopardi, Ungaretti, ma la lista prosegue. Ma in realtà anche far notare differenze o lontananze dal proprio sentire è attraente per i ragazzi.
Tre attributi per definire lo studente italiano medio del nuovo Ventennio.
Il primo è ‘lontano’. L’asse della sua vita è fuori della scuola, che diventa perciò una parentesi noiosa e senza senso. Il secondo è
‘incostante’ perché essere bombardato costantemente da stimoli esterni lo porta ad annoiarsi facilmente e a orientarsi verso la scelta più semplice, che è sempre a portata di mano. Come terzo direi ‘poliedrico’ in quanto non sempre le sollecitazioni esterne sono un male; molti ragazzi hanno avuto esperienze forti che li hanno arricchiti, hanno praticato molti sport, hanno viaggiato molto, hanno molte relazioni, anche se poche amicizie.
Trova una differenza di linguaggio tra un suo studente di vent’anni fa e uno di oggi?
Abissale. Lo studente di oggi utilizza un vocabolario di gran lunga inferiore al repertorio di versi di una scimmia. Inoltre, molto spesso usa le parole “a orecchio”, creando delle espressioni non italiane e senza senso. Evito di riportare qualche esempio per pudore .
È d’accordo col numero chiuso e quindi con l’esame di ammissione per accedere all’università?
Si sta creando una distanza sempre maggiore fra la preparazione di un maturato e quella di un normale studente universitario. Come risolvono il problema le università? Esigendo sempre di meno e creando nei prossimi anni una distanza crescente fra atenei e mondo del lavoro. Quindi, certamente numero chiuso in entrata, ma anche ‘paletti’ più esigenti per gli anni successivi. All’università non si può vivacchiare facendo un paio di esami all’anno: non voglio che un ingegnere, un medico o un avvocato formatosi in questo modo costruisca case e ponti o mi operi con il bisturi o mi difenda in tribunale.
Immagini di essere il ministro dell’Istruzione. Quali i primi provvedimenti che sottoporrebbe al presidente del Consiglio?
Settimana lunga per le scuole superiori: voglio pomeriggi lunghi per i ragazzi, che possano riempire con lo studio, lo sport, l’amicizia, il riposo, rinunciando alle ore di sonno che ora, con la settimana corta, occupano la giornata del sabato perché altro non fanno. Riportare i famigerati PCTO, e cioè i Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento, negli ordinamenti didattici dove erano prima dell’ultima riforma e toglierli da dove non servono, come ad esempio nel liceo classico e scientifico. Rimuovere tutte le progettualità fasull’, che occupano ore di scuola, intasano le segreterie, distraggono docenti e alunni dall’essenziale, cioè la scuola.
Dati causa e pretesto, per dirla alla Guccini, rifarebbe la scelta di dedicarsi all’insegnamento?
Non una, ma mille e più volte.
Corrado Ori Tanzi
[…] di Preistoria e Protostoria presso le Università di Torino, Genova e Bologna. Dai suoi studi, dedicati soprattutto all’arte rupestre e alla protostoria dell’Italia settentrionale, con […]